da lauciani il 11 ott 2007 11:07
ALL'HARRY'S, TEATRINO DEL CIBO GREVE E NARCISO – AL RISTO DI D&G, LA COTOLETTA E’ SEMPRE GOMMOSA - NON RICEVO A CASA IN DONO/ASSAGGIO PACCHI ZEPPI DI LECCORNIE NÉ CASSETTE DI VINI, NON SONO AMICA DEGLI CHEF. INSOMMA, NON SONO UN CRITICO GASTRONOMICO…
1 - ALL'HARRY'S CON MARCO POLO
Camilla Baresani per il “Domenicale” de “Il Sole 24 Ore”
«Nel continuo raccontare ch'egli faceva più e più volte della grandezza del Gran Cane, dicendo l'entrate di quello esser da 10 in 15 milioni d'oro, e così molte altre ricchezze di quelli paesi riferiva tutte a milioni, gli posero per cognome messer Marco detto Milioni».
Marco Polo, insomma, a detta dell'umanista e geografo Giambattista Ramusio, era giudicato un po' sbruffone dai contemporanei veneziani. Se fosse un personaggio di oggi, me lo figurerei mentre racconta le sue storie milionarie seduto a un tavolo del piano terra dell'Harrys Bar. Attorniato da modelle con le gambe troppo lunghe per star rintanate sotto la tovaglia, e da rampolli di industriali della marca veneta, coi colletti della camicia così alti da sfiorargli i lobi, mentre ai tavoli accanto siedono facoltosi americani con l'aria da collezionista, avanzi di jet set, tranquilli gentiluomini veneziani dalla lunga consuetudine con l'alcol e con le stranezze del circo biennal-turistico, che parlano fitto, in dialetto.
È, l'Harry's Bar, l'incarnazione del locale piccolo, un po' opprimente, sul Canal Grande ma senza vista. Eppure è anche l'incarnazione del posto dove tutti vogliono andare dato che proprio quella scarsità di spazi e quell'assenza di tentazioni paesaggistiche permettono di concentrarsi sull'affollato teatrino che vi si svolge. Perché in fin dei conti quel che fa il successo duraturo di un locale non sono le meraviglie degli arredi, né gli stilisti che ci mettono il nome né gli chef passeggeri, bensì una certa intimità, uno starsene addossati gli uni agli altri, un parlar male della cucina, delle bizze narcisistiche del proprietario, della sua cupidigia, e però salutarlo con gran sorrisi e strette di mano.
Perché praticamente è sempre presente, e, quantunque scivoloso e palancaio ti riconosce, ti detesta pure lui, ma non sa vivere senza i suoi clienti. All'Harry's i cibi sono preparati con immutabile tocco di considerevole grevità, eppure si finisce per tornarci sempre; se non altro per godersi il piacere perfido di vedere i camerieri che respingono straniati gruppi di forestieri in bermuda e canottiera, senza verbose spiegazioni, con un solo inappellabile gesto della mano che indica sconvenienti polpaccioni nudi e calcagni arrossati dentro ciabatte carrarmato.
E lo show della tovaglia? All'Harry's sono bellissime, di lino sottile, d'un elegante giallo tenue. A metà pasto, invece di ramazzare le briciole con dorsi di coltello o palette, come avviene altrove, i camerieri arrotolano con tecnica millimetrica una nuova tovaglia e ne fanno un lungo grissino che poi srotolano sulla tovaglia usata, trasferendovi via via le stoviglie.
Altra specialità sono i prezzi. Ingiustificatamente alti, come da fama che li precede e da tradizione veneziana, eppure più bassi della media dei ristoranti dei dintorni grazie a una "voce amica" (è uno sconto del 20% riportato nella ricevuta fiscale) che viene concessa a tre quarti dei presenti e a chiunque ne faccia richiesta con modi da habitué; scegliendo il dignitoso vino della casa si può riuscire a cavarsela con 65 euro a testa.
Quanto al cibo, è la cosa meno interessante. Tenetevi alla larga dai tagliolini bianchi gratinati al prosciutto, dal pollo al curry con riso pilaf, da risotti, pasticcio di tagliardi... oppure mangiateli ma preparate sul comodino il bicchiere d'acqua e bicarbonato. I piatti più equilibrati li trovate negli antipasti; la tartare di tonno, per esempio, una delle specialità più diffuse e mal eseguite dalla ristorazione contemporanea, è particolarmente buona, da preferire al celebre carpaccio.
2 - NON RICEVO A CASA IN DONO/ASSAGGIO PACCHI ZEPPI DI LECCORNIE NÉ CASSETTE DI VINI, NON SONO AMICA DEGLI CHEF. INSOMMA, NON SONO UN CRITICO GASTRONOMICO…
Intervista di Viviana Musumeci a Camilla Baresani per Mediaforum
Come si diventa critico gastronomico? Dove si impara a mangiare, ma soprattutto a giudicare l'eccellenza del cibo?
Anzitutto non sono una critica gastronomica. Meglio precisarlo, perché i
critici veri e propri si arrabbiano. Io, semmai, sono una scrittrice gourmet... faccio la scrittrice e questa passione per il cibo non la considero uno sbocco
professionale: infatti non ricevo a casa in dono/assaggio pacchi zeppi di
leccornie né cassette di vini, non sono amica degli chef che dunque non vengono a cucinare a casa mia per me e i miei amici, sto lontana da eventi, appuntamenti e feste che possono poi aprire le porte a consulenze, non modero dibattiti sul prosciutto o sul prosecco. Evito insomma le molte cose più o meno gradevoli e redditizie che capitano ai professionisti della critica gastronomica.
Ho pensato che avrei letto qualche tuo articolo (sul Nikki Beach del Lido, Venezia,, ndr) e invece niente. Come mai?
Non mi è sembrato il caso di dedicare un articolo a un ristorante che apre solo per dieci giorni all'anno. Comunque, non è detto che non lo faccia prima o poi, perché di cose da dire ce ne sarebbero. Alla fine del pranzo ho chiesto il conto; mi è stato detto che non avevano ancora la macchinetta della carta di credito, perciò dovevo pagare in contanti o con un assegno. Si erano dimenticati di avvisarmi. Non avendo né gli uni né l'altro ho risposto che sarei ritornata il giorno dopo, quando fosse stato possibile pagare con la carta. Mi è stato chiesto di lasciare o la carta di identità o addirittura
l'orologio in pegno. Per 69 euro! E insistevano.
Lo scorso anno sei incorsa nelle ire del duo Dolce & Gabbana perché hai osato criticare il loro ristorante Gold di Milano. Il tuo direttore (Ferruccio De Bortoli, ndr) ti ha in qualche modo ripreso, visto che Il Sole 24 Ore rischiava di perdere i soldi pianificati della pubblicità?
A dire il vero, De Bortoli ha preso le mie difese ed è stato gentilissimo con
me quando a Striscia la notizia gli hanno consegnato il Tapiro d'oro.
Però, se non ricordo male, qualche giorno il tuo articolo, per una coincidenza molto strana comparve, sempre sul Domenicale, un articolo firmato da Davide Paolini che recensiva positivamente il ristorante.
Diciamo che è riuscito a rimediare. Però personalmente non ho ricevuto nessun tipo di pressione.
In seguito sei tornata al Gold?
Certo. Sono stata oggetto di una tale arroganza e volgarità che mi sono
incaponita e sono ritornata. Non ho cambiato idea sulla cucina. La cotoletta
era ancora gommosa. Il locale è bello e l'avevo anche scritto - del resto Dolce e Gabbana sono due stilisti. Ma i camerieri, per quanto di aspetto gradevole, hanno una competenza da commessi di boutique. Non si può fare tutto nella vita.
Penso che, in realtà, la provocazione dei due stilisti avesse come obiettivo quello di farsi pubblicità, anche perché il Domenicale del Sole 24 ore ha un genere di lettori che sono piuttosto lontani dal tipo di clientela che ambisce a frequentare il Gold. Tra l'altro, ogni volta che ci ho messo piede, era mezzo vuoto. I due maleducati sostengono che è sempre pieno, si vede che quando ci vado io preventivamente si svuota.
Dagospia 07 Ottobre 2007