da silbusin il 05 gen 2014 20:10
Ecco quanto è riportato dall'Unione Italiana Consumatori.
Puntualmente arrivano richieste di informazioni dai consumatori sulle voci “coperto e servizio” nei conti dei ristoranti. La domanda, ovviamente, è se i ristoranti possono caricarle sul conto. La questione è annosa e ormai è rimessa alle norme locali, che sono diverse, nel senso che qualche regione se ne è occupata e altre no. In Francia, fin dal 1987 un decreto ha stabilito che nei prezzi esposti al pubblico è compreso coperto e servizio e perfino il pane e una caraffa d’acqua. In Italia, a volte se ne occupano i sindaci. A Roma, per esempio, un’ordinanza del sindaco del 1995 ha vietato di imporre la voce “coperto”, mentre è consentito indicare la voce “pane” e la voce “servizio”. Tutto è rimesso al caso e alla schizofrenia delle amministrazioni locali.
Il “coperto” è o dovrebbe essere il corrispettivo per l’uso di tovaglie, tovaglioli, piatti e posate e la successiva pulizia, ma spesso la voce è associata con il “pane”, in modo da dare una maggiore giustificazione. Le origini del “coperto”, comunque, risalgono agli inizi del 1900 quando la gente andava nelle osterie con il “fagotto” o “cartoccio”, cioè portando cibi preparati in casa e consumando solo vino. L’usanza era diffusa e tollerata dagli osti sia perché a quei tempi nei veri e propri ristoranti andavano solo i ricchi, sia perché, comunque, c’era il guadagno sul vino. A un certo punto, però, qualche oste cominciò a stufarsi della sporcizia e degli avanzi lasciati dagli avventori, che occupavano i tavoli per ore, cosicché, anche per motivi di igiene, sui tavoli furono messi grandi fogli di carta fatti pagare come “coperto”, al quale successivamente si affiancò il pane. Tale addebito prese rapidamente piede in tutte le osterie e poi rimase anche quando si trasformarono in osterie e cucina, trattorie o ristoranti e i fagottari non venivano più. Paradossalmente, nei piccoli paesi italiani a vocazione vinicola ci sono ancora osterie e cantine che accettano clienti con i cibi propri, ma non fanno più pagare il coperto. Tra i ristoratori invece c’è sempre stata riluttanza ad abolire questa voce nel listino incorporandola e ripartendola fra i prezzi dei piatti con un piccolo aumento, perché la ripartizione determinerebbe il parziale “salto” della voce da parte dei clienti, sempre più numerosi, che ordinano un solo piatto. Il che, da un certo punto di vista, sarebbe anche giusto, ma i ristoratori recalcitranti intravedono una perdita di introiti e un pieno recupero dell’importo soltanto con l’ordinazione di un pasto completo. Va notato, fra l’altro, che l’addebito di “pane e coperto” viene caricato anche sul conto di chi non ha consumato pane e ciò è fonte di ulteriori liti. Inoltre, è ovvio che ogni ristoratore, quando decide i prezzi dei piatti, si fa anche il conto delle spese relative alla pulizia di tovaglie, tovaglioli, piatti e posate, che vengono incorporate e quindi si tratta di una voce pretestuosa che è sopravvissuta soltanto per motivi di ulteriore lucro. La regione Lazio ha con una legge regionale vietato il computo del coperto nel conto finale.
Stesso discorso per la voce “servizio” che compare alla fine del conto e che varia dal 15 al 20 per cento del totale, secondo i locali. Pure questa si perde nella notte dei tempi, quando non c’erano i contratti di lavoro e il personale veniva pagato a percentuale sulle ordinazioni dei clienti e dei tavoli che serviva. Il “servizio” era, appunto, la retribuzione dei camerieri, ma la voce è rimasta nonostante da tanto tempo ci siano ormai i contratti collettivi di lavoro e i camerieri siano regolarmente retribuiti. Pur trattandosi di un addebito chiaramente pretestuoso, nessuna norma lo vieta e l’unica condizione è che sia specificato nel listino prezzi. A proposito di prezzi, infine, il consumatore non ha un riferimento come per gli alberghi, ove prima di entrare il numero di stelle dà un’idea del costo della camera. Per i ristoranti, il decreto ministeriale 22 luglio 1977 prevede cinque categorie, rispettivamente lusso, prima, seconda terza e quarta, ma senza un’indicazione visibile al consumatore fuori o dentro il locale