...almeno questo è quello che ha dichiarato in un'intervista dopo aver rilevato la gestione del ristorante Cracco-Peck....
Leggetevi l'avventura di sti 2 "poveretti"....
Immaginatevi un giovane editor, dipendente di un importante casa editrice, vestito in trasandato total black, accompagnato da una scrittrice latino-americana tutta gonnelloni, capelli grigi, pendagli etnici, scarpe da suora laica. I due sono in compagnia di una ragazza dell’ufficio stampa della casa editrice: jeans, scarpe da ginnastica, borsoni pieni di bozze. I tre sono in attesa del tavolo prenotato, accomodati nel salottino dell’ammezzato del ristorante Cracco di Milano. Venti minuti oltre l’orario della prenotazione finalmente vengono accompagnati al tavolo. L’editor ha sete, chiede che nel frattempo gli portino una birra. Poi, quando gli porgono il librone-monstre dei vini, dichiara la propria incompetenza e chiede al sommelier di portargli un “borgogna rosso francese” (come dire “barolo rosso piemontese”: due specificazioni di troppo). Sul finire del pasto, finisce anche la bottiglia scelta dal sommelier, che a quel punto suggerisce di passare a un “vino più morbido e di migliore qualità” (e per fortuna che la prima bottiglia, quella più scadente, l’aveva scelta lui!); l’editor gli lascia fare la scelta. Arriva il momento del conto: 1270 euro. Di cui 10 imputabili alla birra; 240 alla prima bottiglia, “Nuits S. Georges 1997 Leroy”, e ben 685 alla seconda, “Richembourg Richebourg 2000 Leroy”.
E’ un conto che l’editor non può ovviamente presentare alla sua azienda: nel mondo dei libri, simili dissipazioni non sono previste. Chiede spiegazioni al sommelier: “Ma lei non ha visto che di vino non so nulla? Ho iniziato ordinando una birra!” “Dottore, pensavamo che lei se ne intendesse”, gli risponde l’altro. A sentire questa storia vengono in mente quelle sugli incauti giapponesi o americani raggirati nei ristoranti di Venezia e nei night di via Veneto a Roma. Eppure il ristorante Cracco non mira al turista mordi e fuggi, da spremere all’insegna del “tanto, chi lo vede più?”. D’altra parte, chi lavora in una casa editrice non dovrebbe vivere nelle nuvole letterarie come gli scrittori con cui ha a che fare.
Tuttavia, come si fa con le pubblicità ingannevoli o con le cartomanti, bisognerebbe proteggere i consumatori dalla loro tontaggine, e sarebbe auspicabile un codice etico per cui i sommelier si prendano la briga di mostrare ai committenti, indicandolo sulla carta, quale vino gli si stia proponendo. Non ci vorrebbe molto, né si tratterebbe di un gesto privo di stile, incongruo col tono del locale.
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